Trascrizione della conferenza tenuta il 14 ottobre da don Pasquale Brizzi, con la quale abbiamo inaugurato il cammino della catechesi parrocchiale. Il testo non è stato rivisto dall’Autore e mantiene il tono dell’oralità.
C’è una differenza importante tra voce e parola. La voce è il suono che esce da noi e viene amplificato, per esempio, da un microfono. Questo suono provoca onde sonore che raggiungono il nostro orecchio, fanno vibrare il timpano, e queste vibrazioni vengono trasmesse a dei nervi. Poi, tramite segnali elettromagnetici, arrivano al cervello, che le decodifica attraverso un processo biochimico. Pensate che Dio, per rivelarsi, usa anche questi processi chimici e biologici! È affascinante, perché la Bibbia ci invita a riflettere anche sul legame con la scienza.
La Bibbia, infatti, ci insegna a stare con i piedi per terra ma con la testa “sopra” le nuvole, non “tra” le nuvole. È come in aereo: quando sei sopra le nuvole, provi sollievo; quando sei dentro, tutto è confuso. È così che possiamo vivere l’esperienza con Dio: liberi dalle nostre piccole preoccupazioni. Questo è ciò che un cristianesimo maturo richiede, ciò che il Concilio desidera. Si tratta di essere cristiani maturi, capaci di ricevere la Parola, assimilarla e poi annunciarla. Solo così diventiamo un popolo profetico, valorizzando il dono ricevuto con il Battesimo e consolidato nella Cresima.
Questa dinamica è centrale per la Chiesa, è ciò che unisce e rafforza la comunità dei credenti. Senza di essa, rischiamo di diventare un esercito disordinato, privo di coerenza. La Parola di Dio, al contrario, è ordine e armonia. Se osserviamo il testo biblico, vediamo come sia stato scritto nell’arco di secoli: i Salmi vanno dal XIV al III secolo a.C., eppure non troviamo un versetto che contraddica un altro. Dalla Genesi all’Apocalisse, tutto è coerente. È un po’ come il nostro corpo: quando le particelle non sono in armonia, ci ammaliamo. La Parola di Dio, invece, ci riporta all’unità e alla salute spirituale.
Ecco perché io parlo di “bibbioterapia”: leggere una pagina della Bibbia al giorno è un balsamo che toglie di torno anche i disturbi più profondi. La Parola di Dio è viva e penetrante, come ci ricorda la Lettera agli Ebrei. È viva perché genera, rinnova e agisce, proprio come fa lo Spirito. Molte volte siamo abituati a dire certe frasi senza capirne il significato. La Parola di Dio è viva: questo significa che interagisce col divino. Se il mio cuore è “morto”, non può ricevere la grazia, che quindi “muore”. Ecco perché si parla di “peccato mortale”: è l’anima che soffoca la grazia.
Bisogna quindi creare le condizioni perché la Parola possa attecchire, proprio come fa il seminatore della parabola. È necessario predisporre mente e cuore, proprio come facciamo durante la liturgia, quando rispondiamo: “Parola del Signore.” In questo modo la Parola si imprime in noi, entrando nella nostra realtà tridimensionale. Pensate, Dio ha creato tutto in funzione dell’uomo, adattando anche la Parola per noi, tridimensionale come la nostra vita. Solo grazie a questa realtà possiamo percepire la sua bellezza.
Il salterio
Tutto questo ci prepara al percorso di scoperta dei Salmi, che sono 150 e rappresentano il cuore dell’Antico Testamento. È un libro poetico per eccellenza. Accanto al “Cantico dei Cantici”, i Salmi sono il testo più prezioso della Bibbia. Gli ebrei li chiamano “Tehillim” al maschile, anche se la parola in ebraico dovrebbe essere al femminile. Al singolare, si dice “mizmor,” che significa canto o inno di lode. E questa parola, “Tehillim,” da cui deriva la radice “hilal,” vi ricorda forse qualcosa? Non è forse quello che cantiamo ogni giorno a Messa?Quando parliamo di “chille” o “alle”, ci riferiamo alla parola “lode”. Uno dei Salmi più recitati è infatti un Salmo di lode. La parola ebraica è “mizmor Tehillim”: “Tehillim” è il plurale di lode, mentre “mizmor” è un canto o inno. Noi li chiamiamo Salmi, termine che viene dal greco “psalmos,” che non significa propriamente “preghiera” ma si riferisce a uno strumento musicale a corde. “Psalmos” deriva da “psallo,” che indica il pizzicare le corde con un plettro. Chi suona la chitarra sa cos’è un plettro: uno strumento oggi in plastica, un tempo in materiali naturali, che si usa per pizzicare le corde.
I Salmi sono dunque canti che originariamente venivano eseguiti nella liturgia, per le feste e in ogni occasione religiosa. Anche Gesù li recitava ogni giorno, al mattino, a mezzogiorno e alla sera, un po’ come oggi facciamo noi con la liturgia delle ore. E dobbiamo ringraziare il Concilio Vaticano II per aver dato la possibilità ai laici di pregare e meditare sulla Parola con la Liturgia delle Ore. I Salmi possono essere recitati in diversi modi: in forma antifonale, dove due cori si rispondono alternandosi; oppure in forma responsoriale, come facciamo a Messa, quando il cantore intona una strofa e l’assemblea risponde. Esiste anche la recitazione diretta, dove il cantore interpreta il Salmo da solo, e l’assemblea ascolta.
Il termine “Tehillim” in realtà ha una radice più profonda: immaginate una stanza buia in cui accendete una lanterna. Quando avvicinate il volto alla luce, questa illumina i vostri tratti. Questo è il senso del Salmo, della preghiera: illuminare il nostro volto con la luce di Dio. Per noi cristiani, questa luce è Cristo. E così capiamo il simbolismo del cero pasquale, acceso al nostro Battesimo e in vari momenti della vita, fino alla morte. Questa luce ci accompagna e risplende su di noi.
I Salmi seguono questa linea simbolica, e il più antico, il Salmo 104, è un bellissimo inno che richiama un’antica poesia egiziana dedicata al dio Sole. L’autore biblico ha preso immagini e parole di quella poesia e le ha riempite di significato nuovo, cosa che avverrà anche nel passaggio dal giudaismo al cristianesimo. Ascoltiamo queste parole: “Benedici il Signore, anima mia. Sei grande, Signore mio Dio, avvolto di maestà e splendore, coperto di luce come un manto. Tu che distendi i cieli come una tenda.” È una poesia di grande forza, eppure, pensate, probabilmente scritta da un pagano! Lo Spirito Santo soffia ovunque, anche su chi non appartiene al popolo eletto.
I salmi come preghiera
I Salmi racchiudono tutti gli stati d’animo possibili e immaginabili, motivo per cui è così importante pregare con essi. Esprimono le emozioni umane in ogni fase della giornata e della vita. Possiamo trovarvi inni di lode, dove si esalta Dio per le sue opere, non per le nostre. In questi Salmi la gioia è corale, si canta “Lodate il Signore, popoli tutti!” Come quando la luna piena rischiara la notte, ed è come se anche il nostro animo si accendesse di luce, rendendoci capaci di innalzare a Dio una preghiera sentita.
Un passaggio fondamentale è capire che le nostre emozioni possono trasformarsi in preghiera. Le emozioni, come dicevano i santi, muovono, danno movimento. Nel termine “emozione” in spagnolo c’è la radice del movimento: “mozione.” La semplice sensazione non smuove nulla di profondo, ma quando le emozioni sono trasformate dallo Spirito, generano un movimento interiore autentico. Perciò, Sant’Ignazio di Loyola, esperto di discernimento, parlava di “mozioni” spirituali e non di semplici “illusioni.”Le emozioni nella preghiera devono esserci, ma non devono sovrastare o confondere il discernimento, rischiando di farci confondere i nostri sentimenti con quello che il Signore vuole comunicarci. È per questo che il discernimento è essenziale.
Generi letterari dei salmi
Tra i Salmi, esistono vari generi, come quelli che esprimono l’intronizzazione del Signore, utilizzati spesso nelle processioni di ingresso in chiesa per lodare la regalità divina. Esempi di questi Salmi includono il Salmo 50 (51 nella numerazione greca), l’8, il 15 e il 24.
Ci sono anche i cantici di Sion, inni cantati dai pellegrini in viaggio verso Gerusalemme, simili ai canti ascensionali. Era consuetudine per i pellegrini, incluso Gesù, recitare questi Salmi durante i viaggi. Inoltre, troviamo i Salmi eucaristici o di rendimento di grazie, che esprimono gratitudine al Signore (ad esempio i Salmi 18, 30, 32, 40, 138). Altri Salmi sono suppliche collettive, elevati dal popolo in momenti di crisi, come durante battaglie. In queste occasioni, re e corteo si muovevano con cantori, tamburi e sistri, invocando l’aiuto divino per la vittoria. Quando la supplica non trovava esito, non era un fallimento del Signore ma un’errata interpretazione umana, ed ecco nascere i Salmi di fiducia, come il famoso Salmo 23: “Il Signore è il mio pastore… anche se camminassi in una valle oscura, non temerei nulla perché tu sei con me.”
Questi Salmi, così come i penitenziali (come il Salmo 51, “Pietà di me, o Dio”), sono preghiere appropriate a diversi momenti dell’anno liturgico, come la Quaresima. Recitati individualmente, questi Salmi diventano un mezzo per esprimere lo stato interiore del fedele. Non si tratta di semplici “preghiere” come quelle che troviamo sui santini; sono preghiere profonde, la preghiera di Gesù e della Chiesa. San Francesco d’Assisi sosteneva che recitare i Salmi con devozione, come nei breviari, può condurre alla santificazione. Da qui l’importanza per i religiosi della recita del breviario e la bellezza di pregare comunitariamente.
Oltre ai Salmi penitenziali, troviamo anche i sapienziali, caratterizzati da un tono meditativo e riflessivo, come il Salmo 1: “Beato l’uomo che non cammina nel consiglio dei malvagi…” Questi Salmi non sono moralistici, ma indicano la “via del Signore,” la sua legge, cioè la Parola di Dio, guida e strada da seguire.
Una supplica personale nei Salmi è un appello sincero e profondo: “O Dio, vieni a salvarmi.” Con questa invocazione riconosciamo che senza il suo intervento non c’è salvezza. Questa formula di richiesta esprime fede e dipendenza assoluta da Dio. È come quando Pietro, affondando, esclama “Signore, salvami!”—ciò che conta non è solo recitare, ma sperimentare la preghiera sulla propria pelle.
Salmodiare nella sofferenza
La supplica nasce spesso dal sentimento di assenza di Dio, quando sembra che non riusciamo a sentirlo perché non siamo in sintonia con Lui. Tutti noi abbiamo un ritmo naturale, un’armonia insita nelle nostre molecole, che oscillano in sintonia. Per questo è importante ascoltare il nostro essere, il respiro e il battito del cuore, e i Salmi aiutano a cogliere questa sintonia. Esprimono un ritmo vitale, una danza spirituale, come si vede nel Prologo di Giovanni, che è scandito come un settenario musicale. È un ritmo profondo che ci connette alla nostra umanità più autentica.Così si costruisce la comunione, il cammino sinodale: camminare insieme significa entrare in sintonia, essere in “coerenza di fase”. Quando particelle diverse sono in coerenza di fase, chi ha più energia la trasmette a chi ne ha meno, per mantenere l’equilibrio. La natura stessa ci insegna questo. Se nelle unghie c’è carenza di calcio, le particelle circostanti cedono energia per riequilibrare. Anche noi, come esseri senzienti, possiamo camminare insieme in questo modo, in piena armonia. Non basta la buona volontà o il buon proposito, ma occorre che il cammino diventi parte profonda di noi, che penetri fino a essere parte stessa del nostro sangue e delle nostre cellule. Solo così camminiamo davvero insieme, altrimenti ciascuno rischia di fare un proprio percorso separato.
Un esempio è il cammino che abbiamo fatto da San Marco alla Gentana: anche se a tratti eravamo distanti, bastava un richiamo per sincronizzarci e restare uniti, senza che nessuno si perdesse. Questo è ciò che insegna la natura e la Parola di Dio, se la leggiamo con vera attenzione.
Poi c’è il silenzio di Dio, percepito come assenza. In questo stato scaturisce la supplica: “Signore, ti prego, aiutami!” Pensiamo alla donna con emorragia che tocca il mantello di Gesù, a Giairo che si getta ai piedi del Maestro, o al centurione romano. In situazioni disperate, spesso toccando il fondo, avviene la trasformazione; è proprio il passaggio della “crisi” (da cui deriva “crisalide”) che porta al cambiamento, da bruco a farfalla. Così come il bambino deve uscire dal ventre materno per crescere, anche noi dobbiamo uscire dalla nostra “zona di conforto” per evolvere. Per quanto sia rassicurante, non possiamo tornare indietro: siamo qui, e dobbiamo trovare la gioia di vivere dove siamo.
Questa consapevolezza ci protegge dal chiuderci nella nostra sofferenza. Quando soffriamo, il dolore tende a isolare e ci impedisce di vedere oltre noi stessi. Per uscire da questo circolo, la supplica diventa il modo per cercare di uscire dal dolore, invocando: “Signore, vieni a salvarmi.” Anche nei Salmi troviamo questa profonda psicologia: essi ci insegnano a non restare nel nostro dolore, ma ad aprirci.
Tra i Salmi, molti esprimono lamentazione; pensate che su 150 Salmi, circa 50 sono di lamentazione. Nella mia esperienza con il gruppo che seguo, siamo arrivati a meditare su 68 Salmi, e la reazione è sempre la stessa: il salmista sembra sempre lamentarsi! Ma alla fine di questi Salmi c’è sempre una parola di fede, un atto che placa il cuore, proprio come i torrenti che si calmano sfociando nel mare. Anche se ci sono tensioni, ansie e nemici, il salmista alla fine ritrova serenità e fiducia.
Il processo della supplica è quindi profondo: si prende coscienza della sofferenza, si manifesta il problema, e spesso si arriva a un voto, un sacrificio simbolico che ci avvicina a Dio. Senza questo percorso, la nostra preghiera rischia di essere sterile, senza salire né scendere. Solo dopo questo movimento interiore arriva la lode: “Benedetto sei tu, Signore, perché tu non abbandoni il giusto!” E da qui viene la risposta di Dio, l’oracolo, che può arrivare attraverso una parola ascoltata alla Messa o in un momento di meditazione, rivelando la soluzione che cercavamo.
Come disse Einstein, le coincidenze sono il modo che Dio usa per rimanere nascosto. Le risposte non sono quindi casuali, ma segnali di sintonia con il divino.
Un esempio di lettura orante: il salmo 8
Ora faremo insieme un’esperienza di lettura del Salmo 8, non tanto una “lettura” ma una vera e propria immersione, per osservare con attenzione i dettagli del testo. Ho scelto questo Salmo perché è tra i più poetici e, allo stesso tempo, ricco di significato. Prima di iniziare, ricordiamo che quasi metà dei Salmi è attribuita a Davide, 67 per la precisione, mentre molti altri non hanno un autore specifico e sono chiamati “Salmi orfani”. Sebbene privi di paternità certa, essi conservano tutta la loro forza e bellezza.
Il Salmo 8 non è “orfano”: è infatti attribuito a Davide e destinato a essere cantato dal maestro del coro sulla Ghittea. La “Ghittea” era una melodia eseguita, probabilmente, durante la vendemmia, per celebrare i momenti di raccolta e di festa. Come in una variazione musicale, questo Salmo riprende la melodia e ne fa una nuova interpretazione per celebrare la grandezza del Creatore.
Il Salmo si divide in tre parti principali, con una sezione introduttiva che inizia con una solenne invocazione: “O Signore, Signore nostro…” Qui il testo eleva subito una lode, come fosse una liturgia cosmica in cui tutta la creazione celebra Dio. Non si tratta di una semplice preghiera nel tempio, ma di una liturgia universale, dove persino il sole e i pianeti partecipano come ministri e tutta la realtà canta la gloria di Dio.
Questa visione cosmica ci ricorda un episodio storico: quando l’uomo sbarcò sulla Luna nel 1969, Paolo VI volle consegnare agli astronauti Armstrong e Aldrin una placca d’oro con inciso proprio il Salmo 8, perché lo piantassero sulla superficie lunare. Un atto che possiamo considerare come la prima “evangelizzazione cosmica”, un segno di fede che si estende oltre il nostro pianeta.
Nel primo versetto, “O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!”, si celebra la gloria di Dio come una “messa cosmica”, in cui le stelle rispondono al loro nome, quasi anticipando alcune delle scoperte della fisica quantistica. Il salmista, inconsapevolmente, sembra intuire il potere della coscienza di influenzare la realtà. È un messaggio che invita anche noi a sollevare il velo della natura, come suggerivano scienziati come Galileo e Einstein, per trovare Dio in ciò che osserviamo.
Gesù stesso, nel Vangelo, invita a “vedere” oltre le apparenze. Vi sono tre livelli di osservazione: vedere, scoprire e finalmente intravedere. È l’“Eureka!” che Archimede esclamò al raggiungimento della sua scoperta, un’esclamazione di comprensione e rivelazione. Allo stesso modo, Maria Maddalena esclamò “ho visto il Signore” con lo stesso stupore e certezza.
Questa capacità di intravedere oltre la lettera è il compito della “lectio divina”: sollevare il velo del testo per scorgere la profondità nascosta. Come insegnava San Gregorio, la lettura nello spirito ci svela la verità sotto le parole.
Il primo versetto del Salmo si ritrova identico all’ultimo, un’inclusione che incornicia il Salmo in un’unica grande lode. La prima sezione, dal versetto 3 al 5, esplora il rapporto tra Dio e l’uomo, mentre la seconda parte si concentra sulla risposta dell’uomo a Dio, come un dialogo. Qui il salmista si sofferma sulla maestà di Dio, elevando la sua magnificenza “sopra i cieli”.
Esegesi del salmo 8
Quindi, iniziamo il nostro approfondimento!Un’anticipazione: perché il salmista parla di “cieli” e non di “cielo”? È solo un modo di dire, o nasconde una dimensione più profonda? È come se il testo contenesse un’intuizione nascosta, qualcosa che supera i confini della conoscenza del suo tempo. La scienza oggi ci mostra una realtà multiforme, tridimensionale, ma noi ne vediamo solo una faccia, come se osservassimo un cubo da un solo lato. Forse i mistici riescono a intravedere qualcosa di più, accedendo a quelle dimensioni più profonde che ci sono ancora sconosciute.
Pensiamo agli artisti, spesso considerati visionari o pazzi per aver immaginato mondi che solo in futuro sarebbero stati compresi. Il cubismo, con i suoi volti scomposti e prospettive multiple, anticipa una percezione della realtà che non si limita a un’unica visione. Anche il salmista, nel V secolo a.C., guarda “oltre”, in un modo universalistico e rivoluzionario, in cui l’uomo è al centro della creazione come già gli umanisti avrebbero affermato secoli più tardi.
“Con la bocca dei bambini e dei lattanti…”: questo verso ci rivela che Dio non cerca grandi oratori, ma parole semplici, genuine, persino i balbettii di un bambino. Dante, con tutta la sua grandezza, davanti al pensiero divino apparirebbe come un balbuziente. Dio non è impressionato dalle parole altisonanti; come diceva Manzoni, a volte il discorso “riempie, ma non nutre”. Qui invece troviamo una genuinità totale, quella di un bambino che balbetta davanti alla grandezza di Dio, ed è questo che Dio ama.
Nel versetto 4, il salmista afferma: “Quando vedo i tuoi cieli…”, riconoscendo l’opera di Dio come quella di un artista meticoloso. È come se Dio fosse un artigiano, un orologiaio che plasma l’universo con precisione assoluta, “con le dita” e non con le mani. È un’immagine poetica e delicata, in cui ogni stella e ogni pianeta sono posti con cura per mantenere l’ordine dell’universo. Basta pensare alla precisione necessaria perché la gravità della Luna e della Terra restino in perfetto equilibrio: un piccolo sbilanciamento e le conseguenze sarebbero catastrofiche. Eppure, tutto rimane in ordine, manifestando la sapienza di Dio.
Quindi il salmista si interroga: “Che cos’è mai l’uomo, perché te ne ricordi?” Qui l’“uomo” è chiamato ben Adam, un figlio della Terra, fragile come un soffio, proprio come il nome Abele in ebraico significa “venticello”. Eppure, nonostante la sua fragilità, Dio si ricorda di lui e lo custodisce. Questo ricordo non è solo un pensiero, ma una memoria viva, come la celebrazione dell’Esodo, un evento che continua a risuonare nella storia. Anche per noi, Dio “fa memoria” della nostra vita, dei nostri passi, giorno per giorno.
Ancora, il salmista prosegue: “Davvero lo hai fatto poco meno di un Dio, di gloria e onore lo hai coronato.” L’uomo è quindi onorato e ammantato di dignità, come un re nel momento dell’incoronazione. In questa veste, Dio gli affida il creato, quasi come a un “viceré” dell’universo. È una responsabilità grande: il creato è nelle mani dell’uomo, che deve custodirlo con lo stesso amore di Dio.
Infine, il potere di “dare il nome” alle cose è un altro dono importante. Dare il nome significa riconoscere l’essenza, far esistere la realtà. È ciò che accade nella famosa lotta tra Giacobbe e l’angelo: quando Giacobbe chiede all’angelo il suo nome, quest’ultimo glielo nega, perché svelare il nome significa rendersi vulnerabili. Chi conosce il nome diventa padrone, e in quella lotta Giacobbe riceverà un nuovo nome, Israele, che cambierà la sua vita e il suo destino.Ecco la parte finale rielaborata:
Vedete come cambia la prospettiva? Invece di prendere tutto superficialmente, con distacco, questo approccio ci invita a entrare nel profondo. Il Salmo prosegue descrivendo il dominio dell’uomo sulla natura: gli animali della terra, gli uccelli del cielo, i pesci del mare. È una visione che racchiude la creazione intera, dall’alto dei cieli fino agli abissi dei mari, un universo in cui l’uomo è chiamato a essere custode e responsabile.
Infine, arriva la chiusa del Salmo: “O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!”. Capite ora? Diventa più potente, più incisivo, perché emerge tutta la profondità di questa esclamazione. È il nome di Dio che rende reale ogni cosa, che dà vita e significato al creato.
Conclusione
Don Francesco: Concludiamo ringraziando Don Pasquale per i numerosi spunti che ci ha offerto. Non solo nozioni teoriche, ma una dimostrazione concreta di come un Salmo possa arricchire la nostra preghiera e approfondire la nostra fede. I Salmi sono spesso sulle labbra di chi vive la vita ecclesiale, come canti liturgici, ma sono anche parola di Dio: un dialogo tra la nostra preghiera e la sua parola. A volte basta fermarsi, rileggere, pazientare un po’ su un testo, e questi ci rivelano tematiche meravigliose. In questo modo, la preghiera può crescere, avvicinarsi a quella preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato.
La preghiera cristiana, infatti, è un’eco della preghiera di Gesù: non è solo una richiesta, come spesso si intende, ma una partecipazione a quella “preghiera dei figli” che ci è stata donata. E il nutrirci dei Salmi può aiutarci a fare un salto di qualità, a scoprire il valore della preghiera autentica, non solo come richiesta, ma come incontro con Dio.
Don Pasquale: A questo scopo, la nostra scuola di preghiera è nata con l’intento di approfondire la parola di Dio attraverso la Lectio Divina, pratica antichissima, radicata nei secoli nella tradizione della Chiesa, fino a risalire ai tempi del monachesimo medievale. Pregare con la Bibbia è proprio questo: scoprire che la Bibbia stessa è preghiera, una preghiera che ci invita a danzare al ritmo della parola di Dio.
Vi ringrazio, e spero che ciascuno possa continuare questo cammino di scoperta.






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