Introduzione: Sete di Dio nel Deserto dell’Anima
Un deserto arido e desolato, la gola secca, il corpo spossato dalla sete. Ogni pensiero è rivolto alla ricerca di una fonte d’acqua che possa placare l’arsura e restituire la vita. Questa immagine potente ci introduce al Salmo 63, che canta la profonda brama con cui il salmista esprime il suo desiderio ardente per Dio.
Il Salmo 63 presenta la preghiera come una ricerca incessante e appassionata di Dio, attraverso immagini evocative e metafore utilizzate per esprimere il desiderio del salmista.
Il deserto dell’anima
Come accennato nell’introduzione, il Salmo 63 è tradizionalmente attribuito a Davide quando si trovava “nel deserto di Giuda”. Questa ambientazione desertica, caratterizzata da aridità e pericoli, assume un significato simbolico, riflettendo non solo la situazione fisica, ma anche uno stato spirituale.
La mancanza di acqua, elemento vitale per la sopravvivenza fisica, diventa metafora della mancanza di Dio, essenziale per la vita spirituale. Il deserto, quindi, si trasforma in un’immagine del “deserto dell’anima”, uno stato di vuoto e di ricerca in cui l’uomo sperimenta la propria fragilità e il bisogno di Dio. L’immagine del deserto, quindi, ci invita a riflettere sulla nostra esperienza di “sete di Dio”.
Il canto della sete
La prima strofa del Salmo 63 (v. 2) ci presenta immediatamente il tema centrale del salmo: l’ardente desiderio per Dio. Il poeta, usando un linguaggio figurativo ricco di immagini evocative, esprime la sua sete e la sua brama per il Signore.
“O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua” (Salmo 63,2)
Questa strofa si apre con una dichiarazione di appartenenza: “O Dio, tu sei il mio Dio”. Questa affermazione, che ricorre spesso nei Salmi, sottolinea il legame personale e profondo che unisce il salmista al Signore. Non si tratta di un Dio generico, ma del “suo” Dio, colui a cui si rivolge con fiducia e intimità.
Subito dopo, il salmista esprime la sua ricerca incessante: “all’aurora ti cerco”. Il verbo “cercare” non indica una semplice ricerca, ma una ricerca ardente e costante, come quella di una sentinella che attende con ansia l’alba. L’immagine dell’aurora suggerisce l’idea di un nuovo inizio, di una speranza che rinasce dopo l’oscurità della notte.
Il desiderio del salmista è espresso attraverso due metafore potenti: “di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne”. La sete e la brama, sensazioni fisiche intense e primarie, diventano immagini della sete spirituale, del bisogno profondo e totalizzante di Dio.
L’anima, sede dei sentimenti e delle emozioni, e la carne, simbolo della fragilità umana, sono entrambe protese verso Dio. Il parallelismo tra sete fisica e sete spirituale sottolinea la natura essenziale del bisogno di Dio. Come l’acqua è indispensabile per la sopravvivenza fisica, così Dio è essenziale per la vita spirituale dell’uomo.
L’ultima parte della strofa ci riporta al contesto del deserto: “in terra arida, assetata, senz’acqua”. Questa immagine, che riprende l’ambientazione fisica del salmo, rafforza il senso di aridità e di bisogno espresso nelle metafore precedenti. Il deserto, luogo di prova e di purificazione, diventa simbolo dello stato spirituale del salmista, assetato di Dio.
La prima strofa del Salmo 63, quindi, ci introduce a un uomo che sperimenta la propria fragilità e il proprio bisogno di Dio. La sua preghiera è un grido che nasce dalla profondità del suo essere, un’espressione di sete e di brama per la presenza del Signore.
Attraverso le immagini evocative e il linguaggio figurativo, il salmista ci invita a riflettere sulla nostra esperienza di “sete di Dio”. Anche noi, come Davide, possiamo attraversare momenti di aridità e di smarrimento in cui sentiamo il bisogno profondo della presenza di Dio. Il Salmo 63 ci mostra come la preghiera, in questi momenti di difficoltà, possa diventare un’ancora di salvezza, un canale attraverso cui esprimere la nostra sete e trovare ristoro in Dio.
Il canto della fame
L’autore del salmo, passa ora ad elaborare la sua esperienza spirituale utilizzando l’immagine del banchetto, un simbolo profondamente radicato nella tradizione ebraica.
Nel v. 6, l’anima del salmista viene descritta come “saziata come di midollo e di grasso”. Nella cultura dell’antico Israele, il midollo e il grasso rappresentavano le parti più pregiate e nutrienti degli animali, spesso riservate per le occasioni speciali e le offerte sacrificali. Utilizzando questa immagine, il salmista spiega che la presenza di Dio è capace di soddisfare il desiderio più profondo inducendo un senso di sazietà paragonabile a quello di un lauto banchetto.
La scelta del simbolismo del banchetto richiama anche i sacrifici di ringraziamento del culto israelitico, durante i quali una parte dell’offerta veniva bruciata sull’altare come dono a Dio, mentre il resto veniva condiviso in un pasto comunitario alla Sua presenza. Questa doppia dimensione – verticale (verso Dio) e orizzontale (nella comunità) – sottolinea come l’esperienza spirituale del salmista non sia puramente individuale, ma si inserisca in un contesto di lode comunitaria.
Le “labbra gioiose” menzionate nel testo evidenziano come questa soddisfazione spirituale si traduca naturalmente in espressioni di lode e gratitudine. La gioia del salmista non può essere contenuta, ma trabocca in canti di adorazione. Il gesto di alzare le mani, antica postura di preghiera tipica del culto israelitico, manifesta sia la supplica che l’affidamento totale a Dio.
La meditazione notturna descritta nei versetti successivi rivela la profondità di questa relazione spirituale. Nel silenzio delle ore notturne, quando il mondo dorme, il salmista trova conforto e gioia nel ricordare e contemplare Dio.
L’affermazione che “la bontà (misericordia, benevolenza, grazia) di Dio è più della vita” fornisce la chiave interpretativa dell’intero passaggio. Per il salmista, l’esperienza della presenza divina è il fondamento dell’esistenza, la sorgente della vita.
In generale, possiamo dire che questa parte del salmo ci trasmetta l’idea di un’esperienza spirituale che fa scoprire Dio come sorgente, sfondo, meta dell’esistenza e della preghiera come ciò che è “secondo”, come risposta, conseguenza di tale consapevolezza del primato della grazia.
Il canto del giudizio
Gli ultimi versetti del salmo chiedono protezione per l’orante. Egli chiede di essere difeso dai suoi nemici e che Dio attua una vendetta violenta contro i suoi avversari. Le parole utilizzate sono dure e violente:
Ma quelli che cercano di rovinarmi
sprofondino sotto terra,
siano consegnati in mano alla spada,
divengano preda di sciacalli.
La presenza di episodi di violenza nelle Sacre Scritture, in particolare nell’Antico Testamento, ha sempre rappresentato una sfida interpretativa per la fede cristiana. I passaggi in cui Dio viene descritto come rabbioso e vendicativo, arrivando persino a ordinare lo sterminio di popolazioni, hanno sollevato interrogativi profondi fin dai primi secoli del cristianesimo.
Un caso emblematico è quello di Marcione, che giunse a rifiutare completamente l’Antico Testamento proprio a causa della sua presunta incompatibilità con il messaggio evangelico. La Chiesa, tuttavia, ha sempre mantenuto ferma l’inseparabilità dei due Testamenti, riconoscendoli entrambi come autentica Parola di Dio.
Questa tensione diventa particolarmente acuta quando si confronta la violenza biblica con l’insegnamento di Gesù, che non solo predicò l’amore per i nemici ma lo testimoniò concretamente, morendo sulla croce mentre pregava per i suoi persecutori. Come possono i cristiani, seguaci di questo messaggio radicale di amore, dare voce a preghiere che invocano la distruzione dei nemici, come accade in alcuni salmi?
Una risposta significativa a questo dilemma viene offerta da Enzo Bianchi, che critica la tendenza moderna a voler “purificare” la liturgia eliminando i cosiddetti “salmi imprecatori”. Questa operazione, secondo Bianchi, tradisce non solo la parresia (franchezza) biblica ma anche l’autenticità stessa della preghiera cristiana. La vera preghiera non può ignorare la realtà del male nella storia: le grida di dolore e le invocazioni di giustizia, specialmente quando provengono dagli oppressi, rappresentano una forma legittima di intercessione che riconosce il ruolo di Dio come giudice della storia.
I salmi imprecatori vanno quindi compresi in una prospettiva più ampia: non sono meri sfoghi di vendetta personale, ma potenti espressioni di sofferenza che manifestano una profonda fiducia nella giustizia divina. Quando gli oranti affidano a Dio la loro richiesta di giustizia, anziché farsi giustizia da soli, dimostrano una notevole maturità spirituale che supera la logica primitiva della vendetta immediata. Questo atteggiamento rappresenta un’evoluzione rispetto alla legge del taglione e rivela una fede matura in un Dio che opera nella storia per ristabilire la giustizia.
Tentare di “addomesticare” il Salterio o l’Antico Testamento, eliminandone gli aspetti più problematici per renderli più edificanti, significherebbe privare la testimonianza biblica della sua autenticità e del suo realismo. La presenza di “preghiere contro” nei testi sacri ci ricorda che viviamo in un mondo non ancora pienamente redento, dove il male deve essere riconosciuto e condannato, pur affidandone il giudizio ultimo a Dio. In questa prospettiva, la preghiera diventa un atto di solidarietà con le vittime dell’ingiustizia e un’espressione di fede nella giustizia divina che, pur operando con tempi e modi diversi da quelli umani, non mancherà di manifestarsi nella storia.
Questa interpretazione permette di mantenere l’integrità del testo biblico senza sacrificare né il realismo della condizione umana né l’esigenza evangelica dell’amore per i nemici, collocando la violenza biblica all’interno di un più ampio percorso di rivelazione divina che trova il suo compimento nel messaggio di Cristo.
Lunedì prossimo approfondiremo il salmo 131: “Signore, non si esalta il mio cuore”. Non mancare, ti aspettiamo!







Lascia un commento